“Se l’unico strumento che hai in
mano è un martello, ogni cosa
inizierà a sembrarti un chiodo”
A.Maslow
Sto leggendo “Neuropsicologia dell’inconscio” un libro che non consiglierei ai non addetti ai lavori ma che trovo illuminante. L’approccio teorico che permea l’intero libro fa capolino nelle prime due frasi della quarta di copertina: “Per effetto dei costanti progressi nell’ambito della clinica e della ricerca scientifica, il costrutto teorico di inconscio sta subendo oggi una riformulazione e, indubbiamente, una trasformazione. I processi inconsci non sono più ritenuti espressione della mente soltanto, bensì di mente, cervello e corpo.”
L’inconscio è, prima di tutto, un costrutto teorico: una terra incognita che, proprio perché tale, si è prestata ad ogni tipo di interpretazione, di ipotesi e di proiezione. Molti di coloro che lo hanno studiato o che si sono ingegnati a porre rimedio ai sintomi che da esso derivano, hanno perpetrato l’errore di Cartesio: hanno cioè continuato a distinguere fra corpo e mente mettendo così sullo sfondo la natura incarnata della mente e la nostra “tendenza naturale” ad agire, a mettere in atto risposte al mondo che ci circonda.
Per gli animali e per l’uomo rispondere è, innanzitutto, agire. Molto prima di essere creature riflessive siamo stati e siamo “attori che inter-agiscono”: esseri emotivi che sentono il mondo e reagiscono in base a ciò che sentono. La riflessione arriva dopo. E’ arrivata-dopo a livello evolutivo perché i nostri antenati erano molto più simili/vicini agli animali di quanto lo siamo noi oggi e arriva-dopo nelle circostanze di tutti i giorni, tutte quelle volte in cui… troppo tardi, ormai l’ho fatto.
Ci sono almeno due cervelli-mente: uno veloce ed emotivo che non perde tempo e agisce e uno che valuta più lentamente prendendo in considerazione un contesto più ampio, decidendo a volte di trattenersi o posticipando o spiegando l’azione che compie.
“… al cuore dell’emozione e dei processi cognitivi c’è l’attribuzione di un significato all’ambiente”: cammino su un sentiero in montagna e vedo qualcosa di allungato e contorto poco più in là, per terra; qualcosa in me si spaventa, mi immobilizzo come davanti a un serpente, il cuore si mette a battere velocemente e l’adrenalina attiva i muscoli, mi immobilizzo ma sono anche pronto a fuggire; mi accorgo poi che è una corda, avrei dovuto capirlo subito, non ci sono serpenti blu e verdi e così sottili, non su queste montagne, perlomeno.
Ho “agito” in base a un’emozione, immobilizzandomi, e poi ho “deciso di non dare seguito all’azione” riflettendo. Due cervelli diversi hanno attribuito significati diversi al mondo. Il primo ha reagito nel modo in cui funzionano le parti più primitive che rispondono in modo veloce e sporco (quick and dirty), il secondo ha guardato meglio collegando anche una quantità di altre conoscenze e estraendo un significato più articolato.
Entrambi i sistemi funzionano e il primo lo fa prima e a prescindere dalla coscienza.
Questo agire d’impulso ha sicuramente salvato molte vite ma, in seduta, arrivano quelli che, per sfuggire alla corda scambiandola per una biscia, sono finiti nel burrone o hanno rischiato un infarto.
Scappare o immobilizzarsi di fronte a un serpente è una reazione sana ma farlo davanti a una corda o, peggio, vedere corde dappertutto, è un sintomo: il risultato di una difesa rigida che agisce anche quando non dovrebbe, in automatico.
Un automatismo è una risposta che non sa di essere una delle tante risposte possibili. Siccome agisce “sotto e prima della coscienza”, non è facilmente raggiungibile: ci diciamo che la prossima volta agiremo in modo diverso ma, appena immersi in certi contesti, ci limitiamo a ripetere la solita risposta; a volte costruiamo complicati sistemi di pensiero che spiegano come mai agiamo così è perché non possiamo cambiare e queste visioni del mondo (a volte dei veri e propri deliri) non fanno che perpetrare l’automatismo. Certe regioni del cervello non vengono nemmeno sfiorate dal pensiero riflessivo, certi gesti e certe posture appaiono nel corpo emergendo da luoghi a cui la coscienza non ha accesso, ci ritroviamo con in mano il solito martello anche se servirebbero una forchetta, un pennello o un violino.
Per fortuna tutti questi gesti sono accompagnati da un’emozione e l’emozione è la chiave: è partendo da ciò che sentiamo che possiamo tentare un accesso… a ciò che sta sotto. Cosa provo quando impugno il martello? Qual è l’emozione che mi pervade poco prima e durante l’azione? In quali altri contesti l’ho provata e cosa succede se comincio a guardarla e, invece di agire, sto fermo e osservo?
Quello che la ricerca neuropsicologica ha scoperto è che ci sono almeno 7 sistemi emotivi che regolano i principali aspetti della nostra vita modulando percezioni, espressioni e comportamenti relativi alla Ricerca, alla Rabbia, alla Paura, alla Sessualità, alla Cura, alla Tristezza e al Gioco.
Ci sono degli accessi a questi sistemi e si può fare molto per intervenire anche su quelle parti che sembrano così consolidate da non permettere nessun cambiamento, nessuna possibilità di “insegnare un nuovo gioco a un vecchio cane”.
Ne parlerò nei prossimi post perché l’argomento mi entusiasma e perché continuo a credere che ci sono cose che ogni scolaretto dovrebbe sapere è perché … ci sono troppi martelli in giro.

Pink Floyd_The wall